Villepreux: «Stiamo tagliando il rugby a fette »
Fonte: Midi Olympique. Articolo di Simon Valzer. Libera traduzione
L’ex allenatore di Tolosa e del XV della Francia parla dell’eccessività degli staff allargati nel campionato francese.
Qual è la sua visione su questi staff sempre più allargati?
Questa moltiplicazione mi sembra molto largamente eccessiva. Il rugby è uno sport che ha bisogno di unità, tanto tra gli uomini che nelle parole. Ecco perché un uomo deve assumere questa gestione nella sua globalità. E’ il ruolo del manager. Poi, riconosco che il rugby ha dei settori che richiedono competenze specifiche, come un allenatore degli avanti e uno per i tre-quarti. E già si arriva ad un totale di tre persone. E qui, mi chiedo: questi tre tecnici hanno esattamente la stessa concezione del gioco globale che si vuol mettere in opera? Per me, tre persone è il limite. Oltre, penso che si separino troppo le cose, e se le si separa, si taglia il rugby a fette e si perde la sua unità. Ebbene, questo lo indebolisce quando lo si confronta con le condizioni reali del gioco, cioè le partite o gli allenamenti in opposizione, che sono sempre più rari. L’importante è che venga mantenuto un linguaggio comune. Se si moltiplicano i tecnici che intervengono, con ciascuno che lavora nel suo angolo, lo si perde.
Quindi le ritiene che lo staff ideale dovrebbe limitarsi a tre persone?
Dopo, accetto un preparatore atletico, perché è importante, come un preparatore mentale che crei una unità tra i giocatori a più livelli di gioco. E poi mi fermo qui! Mi sta bene, di tanto in tanto, e se necessario, rivolgermi a dei consulenti per lavorare su aspetti specifici, ma non avere un’armata di personaggi presenti tutto l’anno! Ho collaborato con Wayne Smith o Steve Hansen, mi hanno apportato molto ma non per questo ho assolutamente preso tutto dei loro metodi, e viceversa!
Tuttavia, il rugby si è sofisticato, ogni settore è divento più preciso, più accurato…
E’ vero, mi si dice anche che i giocatori hanno bisogno di vedere volti nuovi, di ascoltare discorsi differenti. Può anche andare bene, fino ad un certo punto. E poi, se l’allenatore è preparato, i giocatori non gli volterrano le spalle…E poi più persone intervengono, più si suddivide il tempo dell’allenamento in laboratori differenti. Ora, il mio “pallino” è l’allenamento collettivo. Sapete, si lavoravano anche le «skills» allo Stade Toulousain, solo le chiamavamo lavoro d effettivo ridotto : del sei contro sei, mescolando avanti e trequarti e il tutto in una opposizione più o meno forte a seconda del livello tecnico e del delle abilità lavorate.
Lei non ha citato un ruolo diventato ormai irrinunciabile, quello del video-Analyst. Lei è contrario all’analisi video?
No, assolutamente, l’analisi video è utile finché è usata con moderazione. Deve, per esempio, dare un ritorno ai giocatori sulle loro prestazioni e aiutarli a riconoscere i loro assi di lavoro. L’importante è che questa analisi si traduca sul campo, e che la si metta in pratica attraverso un lavoro in opposizione. Se il tempo dedicato ai video inficia il lavoro collettivo, non va bene.
Gli allenamenti a porte chiuse sono sempre più frequenti…… Cosa ne pensa?
Sono un uomo di libertà. Quindi sono contrario. Sia che si tratti di pubblico, di giornalisti a anche di avversari. Trovo che questo clima irriti tutti: giocatori, allenatori…. E sintomatico di questa libertà che si sta sempre più togliendo ai giocatori: non posso più interagire con l’esterno come vorrebbero, non possono più giocare a rugby come vorrebbero…è spiacevole.
Anche gli allenatori subiscono questa pressione, molti sono liquidati a stagione in corso. Oggi è più duro allenare rispetto alla sua epoca?
Ovviamente. Ciò è legato ai risvolti economici sempre più pesanti. Gli allenatori sono vessati dall’economia e dai risultati immediati. Spesso non hanno il tempo di far progredire il progetto che hanno costruito e che potrebbe essere interessante, ma che è abbandonato per mancanza di risultati a breve termine. È per questo motivo che non ho ritenuto di proseguire la mia carriera di allenatore dopo l’avventura con la Nazionale Francese, nel 1999. Già allora questa dimensione economica diventava opprimente e ingestibile. Glia allenatori hanno bisogno di tempo: Una squadra la si costruisce nel tempo. Constato anche che oggi i giocatori tendono, a volte, ad avere un atteggiamento diffidente nei confronti dell’allenatore.
Cioè?
Quando i risultati non arrivano, alcuni si sdoganano e ne riversano la mancanza sull’allenatore. E allora sei tu che ne fai le spese… Mi sembra che questo genere di comportamento fosse più raro in passato. Bisogna anche riconoscere che gli allenatori oggi si espongono molto di più. Alcuni anche più dei giocatori. Anche in questo devono conservare una certa misura, altrimenti questo rischia di rivoltarsi contro loro stessi. L’altra cosa che mi preoccupa è l’arrivo in massa di tecnici stranieri. I dirigenti francesi pensano oggi che questi siano la soluzione miracolosa, che porteranno risultati immediati! È falso. In quanti sport di squadra la Francia ha avuto successo con uno staff francese? La pallamano, il volley ed il basket non hanno avuto bisogno di stranieri…e poi questo consente di preservare una certa cultura del gioco che è essenziale per conservare coerenza in seno alle squadre. È vero anche il contrario: quanti giocatori stranieri non si sono adattati al contesto francese?
Intervista di Simon Valzer per Midi Olympique del 30 agosto 2016